
Nel maggio del 1953 Guido Piovene (1907-1974), scrittore di rango e corrispondente dall’estero, intraprende un viaggio in Italia che lo terrà impegnato per tre anni buoni.

Animato da uno spirito che ricorda i grandi viaggiatori dell’Ottocento e deciso a scandagliarla palmo a palmo, parte da Bolzano fino a raggiungere anche le lande più dimenticate, andando piano e fermandosi spesso, intenzionato a conoscere a fondo ogni luogo, respirandone l’aria e parlando con la gente.


Con questo spirito “passeggiò per le piazze fisiche e metafisiche, sostò nei caffè, scrutò nelle sagrestie, curiosò nei palazzi del potere, entrò nelle case e scoprì l’Italia”, come in una precedente inchiesta aveva scoperto l’America.


Da questa impresa senza precedenti scaturisce un grande ed inedito affresco che ben lungi dal cadere in ogni accomodante semplificazione da cartolina ci restituisce un documento “scrupoloso come un censimento, fedele come una fotografia e circostanziato come un atto d’accusa”; un reportage nel quale è descritta, con garbo e disicanto, l’Italia degli anni Cinquanta: un Paese appena uscito dalla guerra, che vede l’alba del miracolo economico e la cui identità si stempera in una miriade “ibridazioni culturali”, tanto da indurlo ad annotare che, dopo ogni tappa, “la situazione mi cambia alle spalle”.


Come ogni grande intellettuale Piovene registra, con grande anticipo, le correnti che nel presente si agitano sotto la superficie e ci restituisce un resoconto, meraviglioso e incredibilmente attuale, che a distanza di oltre sessant’anni resta un fondamentale documento antropologico, capace di far emergere il carattere immutabile del Paese – “quello che resiste alle mode e ai rovesci della storia” -, lasciando intuire dove porterà la sua proiezione nel futuro.


E nutre il suo racconto di descrizioni talmente raffinate e suggestive che gli enti del turismo di mezza penisola ne faranno man bassa.


Registra ed annota il decadere delle virtù e, tra queste, “una certa gentilezza di poveri…della quale è difficile ritrovare traccia”; sottolinea il problema di crescita, un problema ancora attuale, “come se questo paese continuasse a dibattersi tra le spire dell’età ingrata, di una perenne adolescenza”.


Le nuove riflessioni scaturite da Piovene sono tali da spingere Montanelli a proporre il testo fra i classici da rendere “obbligatori nelle scuole”.


Il brano esordisce con i lavori compiuti per il piano di risanamento di Città Alta, per poi concludersi con una intervista a Carlo Pesenti, presidente dell’Italcementi.

“Un giro per Bergamo alta con l’architetto Luigi Angelini, che lavora alla sua conservazione con l’opera e con gli scritti.

Molte di queste vecchie case, dichiarate oggi inabitabili, devono essere demolite. «Bisogna risanare», mi dice l’architetto, «la città alta con pazienza, astenendosi dai grossolani piani d’insieme. Proprio un lavoro di cesello, casa per casa, svuotando e rifacendo all’interno quelle che possono salvarsi, sostituendo le abbattute non già con nuove case, ma con piazzette, e portando perciò gli sfollati in Bergamo bassa».


Sono parole simili a quelle che ho udito a Venezia; si ripete qui in piccolo, e per fortuna in maniera meno drammatica, la medesima situazione.
La soluzione giusta, che è indicata dall’architetto, incontra ostacoli minori, anche perché qui a Bergamo vita moderna e vecchie case non sono abbarbicate insieme.

La vita moderna, grandi negozi, uffici, poteri pubblici, è discesa a Bergamo bassa;


quella alta ospita negozi più piccoli, botteghe d’artigiani, popolino, turisti, famiglie aristocratiche nei loro palazzi, e il vescovo sulla cima.





Deturparne il carattere sarebbe dunque senza scusa.

Purtroppo lottiamo in Italia non solamente contro alcune necessità, vere e presunte; ma contro il modernismo rozzo, il gusto della distruzione, la volgarità presuntuosa e volontaria.

Vi è chi distrugge il bello per sentirsi meglio e per mettere il mondo in armonia con se medesimo; ognuno ritrova la pace della coscienza come può.

Certo la discesa di gente sfollata da Bergamo alta è un grattacapo di più per l’amministrazione del Comune.

Ingrandisce la massa di una popolazione sovrabbondante rispetto agli alloggi.


La provincia di Bergamo è prolifica; la sua popolazione si è più che raddoppiata negli ultimi cinquant’anni per la natalità e non per l’immigrazione.





L’amministrazione di Bergamo (eccellente amministrazione) ha fatto costruire nel dopoguerra alloggi per 13.000 stanze. Ma anche la nuova, necessaria ondata edilizia, limitata a Bergamo bassa, nasconde le sue minacce all’estetica.

Non tanto per Bergamo bassa, quasi grande città d’affari, dovizioso, cossue, non priva di bellezze ma nell’insieme già guastata dai vanitosi colonnati e palazzi del periodo fascista.


Il pericolo è che gli edifici nuovi, elevandosi a paravento, sciupino la visione della città alta dal basso.


Mi dilungo sull’argomento perché Bergamo alta è una delle più belle città d’Italia, ed il talento artistico dei bergamaschi è riuscito finora a preservarla quasi intatta.
Ricordo la mia emozione quando mi arrampicai per la prima volta per quelle vie strette, tortuose, culminanti della grande piazza, nella Cappella Colleoni, in Santa Maria Maggiore, fino a quei portali romanici che servono di sfondo a drammi sacri recitati all’aperto, non lontano dai piccoli ristoranti famosi per la polenta e uccelli.

E dedalo delle vie si apre di tanto in tanto in terrazzi erbosi, contemplanti da un lato la pianura lombarda,
dall’altro una valle fra le colline.
Uno scrittore di romanzi direbbe questa una fusione perfetta tra racconto e paesaggio.
La prima volta mi commosse soprattutto vedere, in una terra lombarda che sogna il Veneto, una specie di soffio colorato del Veneto distendersi come una patina sul fondo che potremmo chiamare grezzo, se è grezza una bella ceramica di fronte ad una porcellana.

La valle sotto la città potrebbe essere veneta, e tuttavia l’espressione è mutata. È meno languida, meno molle, più seria.
L’oriente veneto si mescola alla severità meditativa del paesaggio lombardo; la maschera del Veneto qui perde un po’ della sua grazia, si rituffa nella parlata ruvida e nei lazzi delle montagne, e riprende vigore.
Vi è una specie di oscillazione tra l’estro e la praticità, tra il realismo ed il sogno, tra la follia geniale e la prosa metodica. Bergamo non è folle come Verona, né chiusa come Brescia.


È giusto che un pittore come Lorenzo Lotto abbia trovato più consensi a Bergamo che a Venezia. Anch’egli era realistico (il fondo del bresciano, del bergamasco), e chimerico insieme, osservatore e sognatore; era congegnale, direi, con la speciale doppiezza di questa città, quale si legge nel passaggio. L’Accademia Carrara conserva un ritratto fatto da lui, una signora di provincia di mezza età certamente prosaica; ma nel fondo ha uno spicchio quasi esoterico di luna.

Il gusto artistico (nel senso della conservazione di un certo colore di vita popolare dei vecchi tempi), mi sembra più vivace a Bergamo che in qualsiasi altra zona dell’Italia del nord, eccettuate forse Verona e Udine.

La provincia di Bergamo non odia il proprio pittoresco, come oggi quasi tutte le province italiane, in cui si direbbe che il popolo scorga nella sua distruzione un segno di ascesa sociale.



Ho nominato le ceramiche; continuamente a Bergamo e nei suoi dintorni ripenso alle vecchie ceramiche, ai piatti per esempio rappresentanti le fatiche dei contadini durante tutti i dodici mesi dell’anno.

Sono i venditori ambulanti; i roccoli, la polenta, i cacciatori, le osterie, nelle quali si troveranno appesi ai muri i motti tradizionali di spirito sul pagare a credito, oltre alla scena del «delirio della Lucia».

Bergamo è la patria di Donizetti e ha la passione popolare del melodramma; sebbene, dirò tra parentesi, questa passione popolare si veni di aristocrazia.

Il Teatro delle Novità forse è l’istituzione più importante d’Italia per il teatro lirico sperimentale.
Perfino durante il fascismo il Premio Bergamo ospitò la nostra pittura di punta, scomunicata altrove come degenerata, erigendo un benefico contraltare all’idiozia retorica del Premio Cremona.

Dicevo le osterie; poi la poesia vernacola, i canti alpini; le vallate del Bergamasco non sono silenziose come la Valtellina. La caccia è sentita poeticamente. Un cacciatore, il cui mestiere non è certo di fare versi, divenne quasi lirico narrandomi il silenzio dell’alba rotto dai richiami del merlo, la sagoma del gallo cedrone di montagna che si disegna, quasi per un miracolo, contro il sole nascente.

Per aggiungere un altro tocco al ritratto di Bergamo, diremo che essa conserva un grosso nucleo di famiglie della vecchia aristocrazia, ancora nei loro palazzi, a differenza di città come Pavia, Corno, Varese, dove l’aristocrazia si scioglie nel ceto borghese.

Soltanto una città di tradizioni aristocratiche può ospitare un museo come l’Accademia Carrara, di cui non ricordo l’eguale nella nostra provincia. A parte il Lotto e il Moroni, gente di casa, si hanno opere del Pisanello, del Beato Angelico, di Giovanni Bellini, del Mantegna, di Cosmè Tura, vagliate, si direbbe, da un acutissimo spirito selettivo. L’Accademia Carrara mi ha incantato nell’anteguerra, quando era, più che un museo, una quadreria, con quadri mal presentati, stipati, ed i capolavori confusi ad opere mediocri. La si sta ora riordinando.

La persistenza del costume e del pittoresco antico, o meglio la relativa lentezza della sua sparizione, sono proprie delle città di stampo clericale.

Bergamo è democristiana, e con Vicenza e Trento una roccaforte del clero. Non si tratta però del clero innovatore e di tendenze riformiste che abbiamo incontrato a Brescia; la sua azione sociale, imperniata sulle cooperative, è regolata piuttosto su quella di Trento.

La poesia dell’azione religiosa oggi nasce di preferenza dagli ambienti impoetici; si direbbe che essa rifugga come disturbanti gli stimoli estetici ricchi, il colore devoto. A Brescia ho visitato padre Bevilacqua, teologo che ha deciso d’essere parroco dei poveri; a Bergamo non potevo visitare che il vescovo, nel suo vescovado che è come il cocuzzolo della città. Ed ho trovato un vescovo di quarantasette anni, così giovane e bruno, con lo zucchetto rosso sui capelli neri, da sembrare un prelato del Cinquecento, o uno di noi travestito. Pure, com’era vescovile questo giovane sacerdote! Parlava prudente, paterno, encomiastico, ornato, allargando le mani; quale diversità con il linguaggio crudo che avevo ascoltato a Brescia! Al suo posto qui risuonavano le belle frasi della letteratura edificante: «monsignor x, col suo bell’ottimismo»; «gli andammo incontro, aprendogli le braccia e il cuore».

Sono arrivato troppo tardi per assistere alla grande disputa che si sfrenò a Bergamo interessando popolo, borghesi e curia. Fa il paio con un’altra che ho già narrato, sui cavalli del ponte di Verona, accusati d’inverecondia.
Narro quella di Bergamo come fu narrata a me, e chiedo scusa se incorro in inesattezza.

L’urna del gran Bartolomeo Colleoni è nella cappella che porta il suo nome. Vittorio Emanuele III (un uomo, come tutti sanno, preciso) volle che fosse aperta dopo la sua visita a Bergamo avvenuta anni fa; l’urna fu ritrovata vuota.
Molti anni più tardi, un monsignore bergamasco ravvisò il Colleoni in uno scheletro ritrovato da lui non già nella cappella, ma in Santa Maria Maggiore; sepolto con lo scheletro era il bastone del comando. Colleoni davvero? I più pensarono di sì, e spiegarono anche perché era stato sepolto fuori dell’urna. I fisiologi ritrovarono nello scheletro le caratteristiche fisiche del condottiero: alta statura (un metro e ottanta), gambe lunghe che denotavano l’abitudine del cavallo, braccia corte, niente ferite.

Altri argomentarono invece contro l’identificazione. Affiorarono prima tutte le gelosie erudite e curiali, e poi, allargandosi la lite, tutte le inimicizie cittadine latenti; la città fu divisa in due partiti.
Coloro che credevano nel Colleoni accusano i suoi nemici di avere ucciso il Monsignore (che morì infatti poco dopo), non già col volgare omicidio, ma facendogli scoppiare il cuore con la violenza degli attacchi.
Penso quale pittore avrebbe potuto dipingere una zuffa di chierici e laici intorno ad uno scheletro: probabilmente, meglio di tutti, il Magnasco.

I difetti e le infermità, per fortuna oggi quasi interamente scomparsi, delle vallate bergamasche, furono oggetto di dileggi, di lazzi e di caricature non soltanto nelle altre province della Lombardia, ma tra i bergamaschi stessi: il gozzo, la voce grossa, il dialetto aspro e incomprensibile.

«Scemo della Val Brembana», era un’espressione corrente fino ai tempi della mia infanzia, specialmente a Milano, che guardava quei montanari con una specie di alterigia metropolitana.
«Scemo» indicava un misto di tonto e di furbo, di gabbatore elementare e di gonzo, di buffoneria e di rozzezza; e la frequenza degli idioti, comune nel resto di quasi tutte le vallate alpine.
Ma il popolo bergamasco, artisticamente geniale, è portato ad umorizzarsi nelle sue stesse disgrazie e deformità. Il gozzo fu motivo di poesia vernacola ed ornamento d’una maschera bergamasca, Gioppino.


Bergamo è una delle grandi patrie delle maschere popolari.
Il gusto per le maschere purtroppo si va estinguendo dovunque, ma esso persiste a Bergamo più vivo e più naturale che altrove, certamente più che nel Veneto. È mancato nel Veneto quell’ingrediente di rozzezza, di popolaresco vero, che è necessario a sostenerlo, e che rimane invece a Bergamo (o nell’Emilia).

La maschera nel Veneto, quasi sempre d’importazione, si è raffinata, ornata, è divenuta cosmopolita, è passata nel regno della letteratura, e di qui alla morte.
Certi spettacoli di maschere, che ricordo dalla mia infanzia, provenivano dalla cultura, anche se recitati in un teatrino simile a una legnaia che aveva per insegna un lumino ad olio.
Niente di strano dunque che siano spariti. A Bergamo non è così. Possiamo disputare se ad Arlecchino abbia collaborato più Bergamo, o più Venezia. Non voglio certo impelagarmi nella questione dell’origine di questa celebre maschera cosmopolita.

La mia impressione è che, nella forma attuale, essa nacque nel Bergamasco; Venezia si comportò come Milano, quando adottò il motto «scemo della Val Brembana».

Arlecchino probabilmente (e questa tesi è sostenuta anche a Bergamo) è il facchino del Bergamasco emigrato a Venezia, veduto con gli occhi di quella metropoli cosmopolita, colpita specialmente dal linguaggio ermetico del montanaro rozzo‐furbo.
Ad ogni modo Bergamo gli ha dato i natali, e due paesi di montagna, San Giovanni Bianco e Zogno, pretendono tutti e due di averlo visto nella culla. Onori che toccano solo alle maschere, o a poeti come Omero.
La maschera veramente locale è però Gioppino, con il manganello e tre gozzi, e i bergamaschi l’amano perciò di più. Gioppino non è servile; grossolano ma veritiero, plebeo ma difensore della giustizia, a differenza di Arlecchino, egli interviene ancora con il suo bastone nelle questioni che interessano il popolo.
Certo è una maschera più lombarda che veneta.
Una certa tendenza alla buffoneria sopravvive del resto nelle vallate bergamasche, tra i contadini in carne ed ossa.

Lasciando da parte le maschere vive, quelle di legno appaiono ancora abitualmente nei luoghi di ritrovo della provincia. Io stesso, entrato un giorno in un caffè di San Pellegrino Terme, vidi spuntare d’un tratto da un paravento un Gioppino gozzuto, accompagnato da sua moglie pure gozzuta, che diede il benvenuto alla compagnia.

La distinzione fra le maschere vive e quelle fissate nel legno non è poi ancora netta. Accade che un burattinaio geniale, per esempio Manzoni, ricavi maschere nuove da persone vere.

Ho visitato a Bergamo la sua bottega. Essa contiene un piccolo teatro, ora chiuso; Manzoni continua però a recitare nelle osterie dei dintorni. Vedevo, appese o ammucchiate su grandi tavole, le maschere tradizionali, Pantalone, Arlecchino, Brighella, Tartaglia, il Mago, la Strega; ma in mezzo ad esse altre che non riconoscevo. Si trattava di persone vere e divenute maschere in tempi recenti.

Per esempio: era tornato nella sua patria, Bergamo, certo cavalier Magri, arricchitosi con la seta in Persia. Passava il giorno nei caffè, in velenose maldicenze ed insinuazioni segrete; ma, tradito dalla grossa voce, era udito da tutti. Manzoni ritrattò la sua faccia in un burattino; con il nome di cavalier Grassi, il cavalier Magri entrò ancora vivo nel repertorio dei teatrini e delle osterie.

Pure vivente a Bergamo era il modello di un altro burattino, accoppiato al cavalier Grassi: un siciliano immigrato, un «terrone» che pretendeva d’essere bergamasco, e per provarlo parlava un dialetto spurio. Essere trasformati in maschere e burattini qui può accadere a tutti. Questo presuppone genio inventivo, umorismo, e insieme un fondo grosso, realistico; le mangiate, le bastonate, le parolacce, i lazzi, la caricatura pesante. E tale è appunto la mistura del Bergamasco, provincia artistica ma montanara, in cui l’influenza veneta è sempre tagliata di prosa, di praticità lombarde.

Perché Bergamo è Lombardia. Il suo sindaco è uno dei migliori d’Italia; ma solo un sindaco lombardo potrebbe presentare com’egli ha fatto con me un suo collaboratore così: «L’ingegnere x, che conduce valentemente la locomotiva del progresso stradale…».
Questo in Lombardia è lo stile dei buoni amministratori. Favorito com’è dalla situazione politica e dai costumi della gente, l’attivismo lombardo è qui abbastanza libero di farsi strada con i metodi amministrativi che gli sono più consanguinei.

Bergamo nel dopoguerra non presentava certo difficoltà economiche e sociali minori di altre città ben più agitate. Poverissima la montagna; la pianura sotto la media delle altre plaghe di pianura lombarde, per scarsezza di irrigazione.
La forza di Bergamo è dunque soprattutto industriale, ed il suo contadino è quasi sempre anche operaio. Ma: in decadenza le già celebri industrie della seta e della lana; quella del cotone, in progresso, colta dalla nota crisi; in crisi l’Ilva a Lovere, come l’industria dei bottoni; in difficoltà le industrie meccaniche ed il commercio; trentamila disoccupati, le abitazioni insufficienti, l’emigrazione stagionale, già inadeguata in tempi di normalità economica, tanto più inadeguata in un periodo d’eccezione.




Due industrie poderose, la Dalmine e l’Italcementi; tuttavia la seconda, se ha qui la direzione e la sede legale e quattro stabilimenti modello, ha gli altri disseminati in Italia.


Noi ospiti però riceviamo da Bergamo un’impressione di potenza, e perfino di floridezza. Il produttivismo lombardo svolge gradatamente i suoi piani a lunga scadenza.
Ha quasi distrutto le malattie tradizionali, tifo, pellagra, gozzo; combattuto la tubercolosi e le malattie mentali.
Abbiamo già accennato alle 13.000 nuove stanze d’alloggio. Ben amministrato, il turismo trae cinque miliardi all’anno da turisti per ora quasi tutti italiani (e dirò, di sfuggita, che il corso montano dell’Adda, tortuoso, scavato fra baratri, probabilmente ha suggerito a Leonardo da Vinci i suoi paesaggi meteorici).

Fra i diversi progetti che saranno eseguiti: un canale d’irrigazione tra l’Adda e l’Oglio, che feconderà la pianura; la strada, oggi mancante, che unirà il Bergamasco alla Valtellina, e sbloccherà il traffico delle valli.


Collegamenti più facili con Milano, a cui Bergamo è legata ben più di Brescia, soprattutto allargando l’autostrada; ed in generale il rinnovo di una rete stradale deficiente.

L’amministrazione fruisce della quiete politica. Il dominio democristiano è sicuro, perfino nel centro industriale di Dalmine alle porte della città. «Le nostre maestranze», mi ha detto un dirigente della Dalmine, «non vivono concentrate, ma sparse in 215 Comuni diversi, dove ritornano la sera. Perciò sono diluite in un ambiente moderato, e conservano le modeste usanze dei Comuni rurali».
È la regola del Bergamasco, provincia dove mancano le grandi concentrazioni operaie, industriale ma con mentalità contadina.
Aggiungo che le donne vi sono influenti. La donna con carattere ed occupazioni virili è tipica nel Bergamasco, più ancora che a Verona e a Brescia; è gestito da donne ben più di un terzo dei commerci.

Il caso della Dalmine si cita spesso come prova che la demagogia non serve né il paese né quelli stessi che vorrebbe proteggere. Nel 1945 la Dalmine si «ridimensionò», per dirla col gergo di moda; ridusse a 5200 operai i 5900 di prima, licenziandone 700. Adesso la Dalmine è una delle nostre industrie più sane, esporta in 35 nazioni, sta all’avanguardia nella riduzione dei prezzi.
Senza entrare in particolari, dirò che i tubi non saldati e di grosso spessore prodotti dalla Dalmine arrivano a diametri che nessuno raggiunge, e nemmeno gli Stati Uniti. I dipendenti sono sui 10.000.
Assicurano i dirigenti che l’industria avrebbe subito una crisi forse mortale, e perciò non avrebbe potuto impiegare tante persone, se le fosse stato impedito di alleggerirsi nel momento di magra. Dalmine fornisce argomenti in sostegno della nota tesi lombarda sui criteri economici (non demagogici) a cui si dovrebbe ricorrere nei periodi di crisi.

In quanto alla Italcementi, con 21 stabilimenti (tra poco 23) sparsi in tutta l’Italia, produce circa metà del cemento italiano, ed è fondamentale per lo sviluppo del paese; il metano dovrebbe aumentare la produzione e farne abbassare i costi, esentandola dalla servitù al combustibile straniero.
In essa l’opinione pubblica ravvisa uno dei nostri grandi potentati industriali con riflessi politici. Ho chiesto perciò d’incontrare Carlo Pesenti, il presidente. Pesenti è uno dei bersagli favoriti della polemica. Si vede in lui uno dei più duri esponenti di quella che è chiamata, con una definizione abbastanza confusa, «confindustria di destra»; lo si accusa di stabilire, con altri cementerie meno importanti, il monopolio del cemento in Italia, di regolare i prezzi a suo piacimento, di gestire la sua società nel segreto e senza pubblico controllo, di fare violenza allo Stato, oppure di manovrare sott’acqua la burocrazia compiacente; di rappresentare insomma quel «sovversivismo di destra» che andrebbe contro gli interessi della nazione.
Certo chi voglia il sinistrismo, o rosso o liberale, non lo cerchi da queste parti.
Pesenti definisce un’assurdità giornalistica l’accusa che la Italcementi detenga il monopolio della produzione; attribuisce invece molti inconvenienti agli errori di Governi leggeri di fronte alle leggi economiche; quando il Governo, per esempio, paralizzò l’esportazione, e addirittura vietò l’esportazione del cemento, molto bene avviata, argomentando che il prodotto era necessario da noi. Fidarsi unicamente del mercato interno, secondo Pesenti, è avventato.
Colgo un paio d’idee dalla sua conversazione, una sui cementi e l’altra su questioni più generali, che mi sembrano importanti o tipiche.
L’industria cementiera, a suo parere, è legata da noi piuttosto alla costruzione di strade (e di ponti, argini, dighe), che non alla costruzione di case. L’edilizia rimane secondaria, anche perché un suo enorme ampliamento non si avrà per mancanza di operai specializzati; sostenere e scrivere altro, come fanno altri di sinistra e di destra, gli sembra demagogico.

I sindacati paralizzano l’economia con una bardatura troppo pesante. Essi hanno creato una casta di privilegiati al lavoro, che sbarrano la strada agli altri, provocando ristagno, malessere, disoccupazione. Impediscono inoltre lo spostamento d’uomini nella penisola in conformità al bisogno. L’indice degli spostamento, che in America è del 51 per cento, in Italia è del 2 per cento; la bardatura sindacale fa sì che ciascuno, temendo di non ritrovare lavoro, rimanga aggrappato al suo posto.
Questa circolazione difficoltosa è un’altra causa di ristagno, disoccupazione.
Parole nette, idee taglienti: l’urto di mentalità e di scopi tra alcuni gruppi industriali e i Governi del dopoguerra (che tende sempre più a configurarsi in una vera e propria lotta per il potere) è quasi illustrato fisicamente da quest’uomo giovane, bruno, con la testa rotonda e la calvizie nitida che spesso segnano in Italia gli uomini volitivi.
Con lui chiudo la serie dei brevi ritratti, raccolti in questo viaggio, di capi d’industria lombardi e delle loro idee, e insieme mi congedo dalla Lombardia per passare in Piemonte”.
Il brano:
Guido Piovene (1907‐1974). Da “Viaggio in Italia”, edito da Baldini e Castoldi.
Nota
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Bellissimo complimenti io ho il negozio storico dal 1936 in via Paleocapa barbiere 💈 Algeri e vissuto alla chiesa delle grazie
La ringrazio signor Algeri. Il suo negozio storico è noto da sempre ed anche recentemente è stato ricordato da chi frequenta la mia pagina Facebook, dopo la pubblicazione di una vecchia fotografia che ritraeva l’ex cinema Rubini, proprio accanto al suo negozio!
Un carissimo saluto.
Alessandra Facchinetti
Che bei ricordi; mi è piaciuto moltissimo !
Grazie!