Bergamo alta vestita di bianco

 

Nel silenzio irreale della notte
sui colli sorpresi nel sonno 
il cielo ha posato un manto di stelle 

La coltre sottile è caduta leggera
su verdi grovigli addormentati
che mesti riposano in placida attesa

Nell’alito freddo del primo mattino
la luce del giorno si espande soffusa
filtrando sinuosa sin dentro ogni casa

Velato di un soffice candido pizzo
il colle nasconde le sue vecchie rughe
mostrando sornione un bianco sorriso

Laddove la pietra ricopre il pendio
m’inerpico lento sul fianco scosceso
a scorgere linee di azzurro orizzonte

Come gioielli sospesi nel tempo
dimore di pietra fan capolino
dal ciglio di un bosco che appare incantato

Si librano austere fra i gelidi venti
le sagome mute dei sacri edifici
da tempo immemore a dominare
un dolce profilo così familiare

Lanciando bagliori nel cielo infinito
si elevano i monti a formar la catena
che al borgo antico fa da corona

Il tempo che scorre con fluida lentezza
conduce le mente a desiderare
il caldo riparo di un  focolare

Profili di case e di alberi spogli
riflettono il gioco di nubi d’argento
nel freddo mattino sospinte dal vento

E mentre l’ombra si muove piano
cupole bianche fluttuando imponenti
elevano al cielo preghiere silenti

Per qualche istante un timido sole
fa capolino a rammentare
che nulla è immobile e fermo per sempre
ma che è soltanto calma apparente

Sinuosi rami dalle nodose dita
sferzano l’aria in tacito accordo
e sfiorando corde tese fra i rami
abbozzano il suono di una melodia

Le note s’inseguono l’un l’altra
ora più gravi ed ora leggere
ad intonar la sinfonia struggente
che dell’Inverno narra l’eterno ritorno

Ricordi di Città Alta dalla penna di Anna Rosa Galbiati: “I poie della sciura Cassotti” e “Ol Pipelet”

Quarta puntata (per la puntata precedente, clicca qui)

I poie della sciura Cassotti

Nel caseggiato tetro e umido di Via Rocca numero 8 abitava una dolce e tenera vecchietta, la sciura Cassotti.

Piccola e fragile, con un viso angelico incorniciato da capelli grigi e crespi, tutti i pomeriggi, verso le tre, usciva sulla via a far prendere aria alle sue tre “poie”, che teneva in casa in una stia di legno.

Metteva la sua “scagnina” all’ombra, presso “ol pissadùr”, legava con una lunga corda le zampe delle galline al suo polso e le lasciava andare, libere, a becchettare qua e là.

Tenendole d’occhio, con gli occhiali appoggiati sulla punta del naso, lavorava a maglia: faceva solette per calze, che poi vendeva.

Le galline della sciura Cassotti erano degli esemplari unici e buffissimi: avevano il piumaggio solo sul collo e sul capino, il resto era oscenamente nudo e bitorzoluto. Facevano impressione, povere bestie, sembrava fossero state appena spennate, pronte da cucinare in brodo. Vivendo quasi sempre al chiuso, avevano, senza dubbio, problemi di… penne.

Le tre pollastre, incuranti ed ignare del loro terribile aspetto, chiocciando tutte contente, si muovevano sull’acciottolato rovistando tra i sassi con le loro zampe unghiate e beccando non si sa cosa, perché non c’era un filo d’erba, solo sassi. Spesso beccavano anche il muro del cortile delle suore e ne mangiavano l’intonaco. Il loro più grande sollazzo era però quello di grattarsi il sedere sui ruvidi sassi dell’acciottolato, per calmare il prurito che le infastidiva.

La sciura Cassotti curava con tenerezza le sue tre creature, come un’affettuosa nonnina, e le chiamava per nome: Pinù, Bice e Carmelina.

Da Tito Terzi

D’inverno, la sciura Cassotti scendeva solo quando c’era bel sole, lasciando zampettare le sue gallinelle attaccate alla corda, come se fossero cagnolini. Quando si allontanavano un po’ troppo, strattonando la corda per andare più avanti, la sciura Cassotti le chiamava per nome e quelle, traballanti e ubbidienti, le correvano vicino. Erano furbe, comunque, perché si aspettavano una ricompensa: la sciura Cassotti prendeva infatti dalle tasche dei pezzettini di pane e glieli imbeccava, come fossero zuccherini.

Quando faceva freddo, copriva le loro nudità con delle mutandine di lana fatte da lei su misura. Al riguardo mi spiegò che, se il sedere delle galline si raffredda, non fanno più le uova. Non era possibile trattenere il riso, guardando quelle galline con le braghette a righe nere, grigie, beige! I turisti che salivano alla Rocca, si fermavano sorpresi e divertiti a fotografare o a filmare quelle simpatiche pollastre.

Un pomeriggio, la sciura Cassotti mi disse che si, le galline facevano ridere e non erano belle, però erano speciali, perché nascondevano un tesoro… Erano galline dalle uova d’oro! Io, nella mia ingenuità d’infante, le credetti alla lettera, come credevo alle fiabe.

Curiosissima, un giorno le chiesi se mi faceva vedere un uovo d’oro, poiché non ne avevo mai visti. Lei, divertita, mi sorrise e disse: “Dopo, vieni su con me, che te ne farò vedere uno.”

Quando il campanile di San Pancrazio suonò le sei, la sciura Cassotti si alzò e chiamò le sue poie. Queste accorsero ubbidienti, si accovacciarono ai suoi piedi e si lasciarono prendere in braccio, senza agitarsi.

lo la seguii, tenendole la “scagnina”, su per le strette e buie scale, che non finivano mai. Alla fine, entrammo in una stanza che sembrava una piazza d’armi.

Da una finestrella, l’unica dell’abbaino, si vedeva di fronte la punta del campanile di San Pancrazio.

Pensai: “Come siamo in alto!”

La sciura Cassotti depose sul pavimento le sue gallinelle, che cominciarono a girellare per la stanza a loro agio, apri la “moscaröla” e tolse un cestinetto di ferro con dentro due uova. Le osservai e delusa le dissi: “Ma, signora Cassotti, sono normali, non sono d’oro!” Con un sorriso accattivante mi guardò e mi rispose: “Te ghét résù, ma per me valgono come l’oro, perché con due uova al giorno io vivo da regina”. Capii perfettamente.

Prima di scendere per tornare dalla nonna, la cara sciura Cassotti mi regalò un uovo, mettendomelo tra le mani. lo lo tenni con cautela, per non romperlo.

La ringraziai con calore, salutai Pinù, Bice e Carmelina, che si facevano i fatti loro, e scesi felice, adagio adagio, perché avevo tra le mani un tesoro.

OL PIPELET

Al numero 6 di via Rocca, in un fosco scantinato, miserevole e maleolente, senza alcuna finestra o pertugio, abitava “ol Pipelet”.

Era un vecchio dalla lunga barba bianca e bianchi capelli, il suo aspetto solenne e ieratico ricordava gli antichi eremiti. Era cieco, ormai, e la sua cecità, isolandolo dal mondo esterno, lo elevava a spirito inaccessibile e inattaccabile.

Non vedeva e non diceva una parola, stava muto, immobile e assorto in chissà quali pensieri. Certamente, dietro quegli occhi spenti, balenavano lumi di immagini vive e le sue labbra ora mute avevano un tempo sussurrato parole d’amore e di passione.

Nessuno sapeva nulla di lui, da dove venisse, come si chiamasse in realtà, quali sofferte esperienze avesse vissuto. A tutti sembrava fosse sempre esistito, come i vecchi muri delle case di Città Alta. Era il vecchio Pipelet.

Tutte le mattine, una donna che viveva con lui nel misero tugurio, non so se fosse la moglie o l’amica, una donna dall’aspetto sgraziato lo accompagnava a mendicare, tenendolo sotto braccio fino in Colle Aperto.

Metteva lo sgabello contro il portone della Cittadella, allora sempre chiuso, vi faceva sedere il vecchio Pipelet, gli dava in mano una fisarmonica a soffietto e lo lasciava li fino a mezzogiorno.

La donna, nell’attesa di andare a riprenderlo, si fermava dal Sergì, l’osteria in piazza San Pancrazio, e chiedeva ad ogni avventore “ü càles”, perché aveva sete.

Era un’alcolizzata, che per un bicchiere di vino sopportava i lazzi salaci e scurrili di uomini che si divertivano a farla bere per vederla ubriaca.

Il povero Pipelet, solo, in Colle Aperto, con il cappello per terra, cercava di attirare l’attenzione dei passanti suonando la sua fisarmonica.

Allargando e stringendo il soffietto, emetteva sempre le solite note stridenti: “frin, frin, frin”, sperando di sentire, prima o poi, il tintinnio di qualche monetina nel suo cappello vuoto. Altero e imperturbabile, non dava segni di stanchezza o noia, perché lui viveva altrove. Il Pipelet non era un barbone qualunque, era un asceta in ritiro spirituale, un santone che non si lamentava mai e nascondeva la sofferenza in un dignitoso e altero distacco.

Un giorno, scendendo da via Rocca per andare a comprare il pane dai Nessi, vidi la sagoma del Pipelet, tutto solo, che saliva a tentoni e con fatica la via, tastando il muro, per riconoscere il suo portone di casa.

Mi arrestai turbata per l’improvviso incontro e, dopo un attimo di esitazione, corsi verso di lui e gli chiesi: “Signor Pipelet, vuole che l’accompagni fino al portone?”

“Grazie, grazie”, sussurrò con un filo di voce, e mi afferrò la mano. Il suo portone non era molto distante, lo accompagnai fino alla soglia e gli feci fare il gradino.

Prima di staccarsi da me, mise l’altra mano nella tasca, tolse una monetina e la mise nella mia mano, ripetendo ancora: “Grazie, grazie”

Io, colta di sorpresa, non ebbi il tempo di rifiutare e gli risposi con un: “Buon giorno, grazie”.

Mentre camminavo, però, sentivo in me imbarazzo e vergogna e mi ripetevo: “Perché ho accettato quella monetina, magari l’unica che aveva ricevuto quel giorno?” Quella monetina mi bruciava tra le mani e nel cuore provavo un gran senso di colpa.

Il mattino seguente, senza dire nulla alla nonna, feci una corsa in Colle Aperto, dove trovai il Pipelet al suo solito posto.

Sollevata nel vederlo, mi misi davanti a lui, ascoltai un po’ la sua nenia sofferente e rimisi la monetina nel suo cappello.

Pipelet, 1948

Lo salutai, ma lui non mi rispose, però a me parve di intravvedere un sorriso sulle sue labbra. Ritornai a casa saltellante, con una piacevole sensazione di leggerezza e di liberazione.

L’anno seguente, quando ritornai in via Rocca, non rividi più il povero Pipelet e nessuno sapeva nulla di lui.

Era scomparso nel nulla, come un colpo di vento.

 

Anna Rosa Galbiati, “Acquarelli Bergamaschi” (Sistema Bibliotecario Urbano – Biblioteca circoscrizionale Gianandrea Gavazzeni, Piazza Mercato delle Scarpe – Città Alta).

Nota

Le immagini sono scelte da me.

La memorabile nevicata del 1932 e la gara di sci da San Vigilio alla Fara

Sembrerebbe fantastoria, ma negli inverni nevosi degli anni Trenta i colli vedevano frotte di sciatori caracollare lungo i pendii innevati.

Il colle di San Sebastiano innevato, nel 1916

I campioni di belle speranze si cimentavano spesso e volentieri sul pendio  sottostante Sant’Agostino in direzione Valtesse, sulla leggera discesa di casa nostra.

Sciatori sotto lo spalto di S. Agostino nel 1931

Erano semplici amatori di uno sport molto in voga dalle nostre parti, allora come oggi.

Sciatori sotto le mura 1931

C’è chi ricorda che ci si poteva spingere quasi fino alla Sace, ed anche la Boccola in quei periodi si trasformava in  una pista da sci. Una cosa davvero difficile da immaginare, oggi.

Sulle Mura, 1917

Poco più su, il campo di pallavolo del parco di Sant’Agostino, già dal 1906  era stato trasformato in una gioiosa pista da pattinaggio per il divertimento dei signori pattinatori e di graziose pattinatrici, disinvolte nelle eleganti acconciature invernali. Era offerta ogni comodità compreso il servizio per il caffè; ed anche di sera, grazie alla luce elettrica era possibile scivolare sulla lucida platea al suono di un’orchestra.

Slitta in Colle aperto, nel 1900

Anche se i più temerari, si sa, non rinunciavamo mai alla grandissima pista naturale del lago d’Endine.

Il lago d’Endine ghiacciato

 

Piccoli pattinatori al lago d’Endine ghiacciato

In quell’inverno del 1932, però, la neve non s’era ancora vista.

A metà febbraio c’era già nell’aria il profumo delle viole. Ma verso l’imbrunire di quell’ultimo giorno di carnevale, il cielo si era fatto grigio, gonfio e basso, così basso che il parafulmine del Campanone e le guglie di Santa Maria sembravano volerlo bucare.

Cominciò così il candido sfarfallio di una miriade di petali bianchi, che in breve imbiancarono l’intera città.

La venditrice di viole con il suo gran canestro, seduta sui gradini di San Bartolomeo, parve di colpo un anacronismo: ora, nessuno pensava più alle timide viole di campo.

E nei campi tutto spariva a poco a poco, e tutto era reso uniforme e indistinguibile dalla fitta nevicata che da due giorni scendeva senza sosta.

In quell’inconsueto anticipo di primavera, tutti tornarono al caminetto acceso, un po’ come ai bei tempi, tornando in un sol colpo a soprascarpe, ombrelli, maglie di lana e raffreddori: si era piombati in pieno inverno, un inverno siberiano da vigilia natalizia.

Convenivano i vecchi proverbi “Nedal al Xech, Pasqua al foch”, e molto saggiamente non si erano sbagliati perchè il Natale era stato tiepido e festoso: un lieve tepore aveva baciato i colli da San Vigilio alla Bastia, soffusi di luce armoniosa e nei grandi vasi di legno sulla terrazza della “Montanina”, i germogli degli oleandri avevan fatto capolino.

San Martino della Pigrizia

Fra dicembre e gennaio non c’era stato un quadratino di neve nemmeno fra i mille o i duemila metri, e a metà febbraio ancora non se n’era vista nemmeno in montagna, dove la dama bianca non era mai mancata.

Ma che razza di gennaio era quello, senza freddo, senza pioggia, senza nebbie, senza gelo, senza neve? Ad Ardesio, paese dove i centenari non erano una rarità, lo Zenerù non si era salutato; non si era potuta rinnovare una tradizione vecchia di cent’anni, celebrata da padre in figlio, che cadeva il mese di gennaio. Del resto, che motivo c’era di festeggiare l’inverno che non c’era?

Già alla fine di gennaio coloro che speravano di scorrazzare per i colli con gli sci erano furibondi; la neve tanto invocata non arrivava, tant’è che Bergamo minacciava di diventare una stazione climatica della Riviera; e l’illusione del mare qualche volta la si poteva avere guardando da Città Alta il piano sommerso dalla nebbia.

In città, quelle cinquantamila lire messe da parte dal’amministrazione per la spalatura, erano state ormai destinate alla beneficenza.

E invece….

Scendeva larga e frettolosa, precipitando giù senza posa né misura: cinquanta centimentri in città, settantacinque in Val Seriana, in Valle Imagna e in Valcava. Un metro in Val di Scalve, Val Bondione e alta Valle Brembana.

La Cornagera nel 1906

Le linee telefoniche erano interrotte, c’erano cavi elettrici abbattuti e frequenti cadute in strada, gambe e braccia rotte.

Comunque, tranne i treni che talvolta arrivavano a destinazione “con ritardi persino di un’ora”, la città non lamentava gravi danni, il traffico tranviario e automobilistico continuava a funzionare con una certa regolarità, grazie al regolare e continuo sgombero delle vie cittadine e delle provinciali.

Sulle Mura dopo la nevicata. A metà febbraio, la neve era scesa per tre giornate, mattina e sera, notte e giorno

Da giorni erano più di quattrocento le persone impegnate a spalare la neve e cinquanta carri erano impegnati per le strade, con una spesa che cominciava a gravare sulle casse comunali: le cinquantamila lire sfumarono in cinque giorni.

Intanto la neve continuava a scendere: larga, fitta, senza soste. Una nevicata come a memoria d’uomo non se ne ricordava e per la quale erano stati interpellati anche gli ultracentenari: “Ricordate voi una neve così abbondante?”.

Neve lungo il Viale delle Mura

La città se ne stava infagottata in casa ad ammirare da dietro i vetri come tutto si copriva di bianco.

I fotografi partivano, scatola a tracolla, a caccia di visioni, di panorami, di particolari, di controluce, di istantanee da catturare, prima che la neve, scomparendo, non lasciasse più neanche un segno del suo tocco fatato.

Uno sguardo d’insieme all’alta città dalla salita di San Vigilio, non era forse una scoperta?

Alla chiesetta di San Vigilio

Il candore dei tetti, rotto dalla ragnatela sottile e nera delle viuzze, dava un rilievo aereo e leggero alle torri, ai campanili, alle altane: pareva lo scenario per una rappresentazione cinematografica di un’amorosa storia d’altri tempi.

Improvvisamente, si videro le sartine e le dattilografe trotterellare sotto i portici, con gambali cosacchi, tondi berretti di pelo e guantoni alla moschettiera acquistati da Mazzoleni e Richelmi

La Rocca intravista da Castagneta, dai grigi fianchi profilati di bianco, ricordava qualche fosco teatro di un dramma d’appendice. Torquato Tasso, sotto la gronda di Palazzo Vecchio, sembrava malinconicamente rimpannucciarsi come in un manto.

Giù nel borgo, Donizetti, sul marmoreo divano, innanzi al laghetto gelato, Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cucchi, Cavour e Nullo, battevano i denti e non ne potevan più. Là in fondo, Mascheroni, spalle al muro fra una banca e un ristorante, ringraziava Ettore Capuani per averlo voluto lì, discretamente riparato, e guardava con compassione lì”Italia” di Faino, che con cimiero in testa, il petto corazzato e la vittoria in mano, sporgeva dalla sua nicchia nella Torre.

I viali ed i giardini infiocchettati. Viale Vittorio Emanuele era trasformato in una galleria di ovatta;

Viale Vittorio Emanuele

I giardinetti di Porta Nuova e del Donizetti parevano perdere le loro modeste proporzioni per trasfigurarsi in grandi parchi.

Il monumento a Donizetti e il laghetto dei cigni

Lo spettacolo, più unico che raro, delle fontane di Piazza Dante, Piazza Vecchia, Piazzetta S. Pancrazio e dei giardinetti di Porta Nuova, tramutate in maestosi fiori di ghiaccio e di neve, in cascate di ghiaccio fermate sulle coppe, sui gigli, sugli orli delle vasche, sui cavalli o sui serpenti marini; fulgenti e trasparenti monumenti di alabastro, blocchi levigati, gibbosi, frangiati di cristallo a migliaia di sfaccettature che, sotto il sole, sprizzavano barbagli di luce da accecare.

Il “Piantù”, il grande ippocastano del Boschetto di Santa Marta

Nella Bergamo siberiana, da giorni la neve continuava a cadere a larghe falde, tutto livellando, tutto trasformando come in un vero e proprio paese nordico.

In slitta sulle mura sotto il Seminario

E fu così che i membri del CAI ebbero la geniale, sorprendente idea di organizzare una gara di sci in città, sfruttando le eccezionali nevicate del momento.

Dopo una serie di telefonate arrivò l’autorizzazione. Ed ecco il percorso prescelto: dalla Vetta di San Vigilio alla Porta di Sant’Agostino. Non si trattava di un percorso da principianti, perchè scendere in sci dalla Vetta alla Montanina, aggirarsi per i tornanti sopra Castagneta, precipitare in Colle Aperto e trasvolare il Vagine, non era da tutti.

Venne dato l’ordine di non sgomberare più la neve dal percorso di gara, lungo il quale sarebbe stata spalata ed ammucchiata ai lati delle strade.

Avvenimento eccezionale, che faceva parlare le cronache dei grandi giornali e faceva strillare non pochi cui non pareva giusto veder imbottire di neve il passaggio degli sciatori, mentre altrove si risparmiava la spalatura.

“Insomma” – diceva il giornale – nell’occasione Bergamo non vuole essere da meno di Lake Placid, dove per le Olimpiadi è stata ‘asfaltata’ di neve una strada lunga venticinque chilometri”.

E così, porta neve su, porta neve giù, ne risultò un percorso stupendo, tanto da sembrare “un paesaggio svizzero”, come disse Mazzoleni, il delegato della FIS.

La “Montanina” era stata trasformata in quartier generale, aperto giorno e notte alle frotte goliardiche, che trovavano di assoluta comodità raggiungere il San Vigilio con la funicolare e ridiscendendo in sci, anche se, fra i cinquantadue partecipanti (per regolamento tutti tesserati della Federazioone italiana dello sci), non mancò chi preferì incamminarsi su per la Vetta con gli sci in spalla.

La tassa di iscrizione alla gara aveva il costo di cinque lire.

L’interno del ristorante “La Montanina”, a San Vigilio. Dal vasto banco della cucina, l’ampio e rubicondo Beppino Zanga era fra i vertici dell’organizzazione

Il candore era intervallato soltanto dalle bandierine rosse infisse nella neve per meglio segnalare il tracciato agli sciatori. “Un percorso scelto con l’intento di disturbare il meno possibile i cittadini e di essere ideale per la gara”, diceva un articolo.

Giunto l’11 febbraio, giorno prestabilito per la gara, a Bergamo aveva nevicato ancora e si erano raggiunti i 10 gradi sottozero. Tutto era pronto. Al suolo c’erano quaranta centimentri di neve e mentre alla Fara un piccolo esercito di sciatori si divertiva su e giù per la breve discesa, la sezione del CAI di Bergamo dette il via alla prima, storica gara di sci cittadina.

La “Voce di Bergamo” scrisse che “per un giorno Bergamo ha rivaleggiato con Davos, Cortina d’Ampezzo e St. Moritz”.

Prima del via, il pubblico si era raccolto nei punti migliori e più sicuri, in qualche tratto però invadendo anche troppo la pista.

Tutti i cronometristi erano ai loro posti. Il personale di controllo aveva già percorso più volte la pista. Tutto appariva regolare se non con qualche neo, non dovuto comunque agli organizzatori.

La neve era ideale.

A dare il via c’era l’onorevole Antonio Locatelli.

Nei pressi della Montanina

I concorrenti si presentavano con un grande numero sul petto.

Due concorrenti

 

La discesa più pericolosa della gara

Poi tutti giù a distanza di un minuto l’uno dall’altro sfrecciando da via Vetta lungo la panoramica, da via Scalvini a via Cavagnis, da via Sotto le Mura di S. Alessandro a via Beltrami, da Colle Aperto alla Boccola e lungo la Fara a rotta di collo.

Colle Aperto

Al traguardo arrivarono chi agile ed elegante, chi tardo e pesante, chi sciando, chi camminando nella neve. Nonostante qualche caduta, alla Porta di Sant’Agostino arrivano tutti.

Scorcio della ripida discesa della Boccola da via Vàgine (Alfonso Modonesi)

Il vincitore?

Franco Testa in dieci minuti e quarantun secondi; poi Enzo Frigerio a ventitrè secondi; terzo Franco Mai a venticinque secondi; quarto Aldo Bondioli a trentadue secondi; quinto Giulio Pio a trentatrè secondi; sesto Vincenzo Pessina a quarantatrè secondi; settimo Bruno Nicolosi a quarantacinque secondo; ottavo Alberto Botti a cinquantadue secondi; nono Giuseppe Agazzi a cinquantanove secondi. Via via tutti gli altri in tempo massimo (stabilito in un quarto d’ora).

Il traguardo alla Fara

Tempi esagerati? Nient’affatto, se si tiene conto di cosa poteva significare   scendere dai numerosi e ripidi tornanti della “panoramica” con gli sci di allora!

Intanto, atri sciatori sciamavano, in maglia e berretto, da tutte le strade dei Colli.

Sciatori sotto le mura di S. Agostino, nel 1932. Chi arriverà primo alla Morla? (Raccolta D. Lucchetti)

I molli declivi di Valverde, dominata dal suo Castello, erano diventati campi d’assaggio per i neofiti degli sports invernali.

Sciatori sotto lo spalto di Sant’Agostino

In maglia e berretto,  senza pretese di eleganza e senza sfoggi di costumi si era data convegno la folla più varia e più gaia.

Le slitte, a volte formate da due sole assicelle, volavano per le vie; una latta da petrolio eccola trasformata in veloce scivolo, un badile, un pacco di libri, una cartella da scrittoio, tutto ciò che era piano e liscio poteva benissimo tenere il posto del seggiolino da neve.

Slitta sotto gli spalti delle Mura veneziane

Capitomboli, salti, rovesciamenti, ammaccature, strappi? Non ebbe importanza, l’anima esultava perchè in cuor suo sapeva che quello era davvero un giorno memorabile.

Riferimenti

Umberto Ronchi, Bergamo in bianco. In La Rivista di Bergamo

Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

Nebbia in Città Alta

Fotografie di Giuseppe Preianò

 

La pioggia, stanca di osservare un mondo sempre uguale, disse un giorno al Cielo: 
“Io posso dipingere il mondo di un solo grigio colore. 
La Tempesta, mia sorella, sprigiona grandi arcobaleni; il Temporale, mio fratello, trafigge  con l’impeto violaceo della folgore”
“Tu puoi essere tante cose invece!“, rispose il Cielo. 
“Puoi essere pioggia, pioggerella, acquerugiola, acquetta e persino acquazzone di primavera.
Il mondo si riflette nei tuoi mille specchi e fluendo leggera regali alla Terra succosi frutti”
“Ciò non mi basta!” ribattè lei stizzita.
“Anch’io vorrei stupire e creare meraviglie!”

Preso da compassione 
il Cielo le permise di calare sul mondo come Nebbia 
 e fondersi con esso 
fluttuando coi colori più cangianti 

Vagando leggiadra in ogni dove 

quella massa densa  e azzurrognola

avvolgeva di bruma ogni cosa 

sino a celarla alla sua stessa vista 

Poi lentamente cominciò a intravedere

 insieme alle altissime torri 

le cupole e i campanili

che bucando il suo soffice mantello 

 si svelavano lucenti sotto la sua spessa coltre

Il mondo da lassù pareva assai diverso ora

ed anche gli uomini laggiù rallentarono il passo

ammutoliti da quella meraviglia

Come per magia 

emergevano altissime guglie celesti 

che animate da trame invisibili 

 scomparivano ed apparivano fluttuando leggere

Ma stanca di quel gioco

 la capricciosa Nebbia chiese aiuto al Vento

che gonfiandosi il petto

con alito potente squarciò uno spicchio di Cielo

 mostrando l’ombra di un castello

Più in alto

le guglie brillavano ardite con tale bellezza

che anch’egli commosso sparse all’intorno 

un velo di polvere turchina

Nell’ora del silenzio

la quiete accompagnava le prime luci della sera

e una musica dolce

colmava i cuori di un canto struggente

Giovanni Signorelli detto “il Merica”: il cantastorie di Bergamo

1920: il cantastorie Giuseppe Signorelli detto Merica nei pressi del Duomo

Con il Merica, una tipica macchietta cittadina vissuta fra fine Ottocento e la prima metà Novecento, gli autori e le cronache del tempo ebbero di che sbizzarrirsi.

Era, nel ritratto che di lui fece Umberto Zanetti, “un omino dinoccolato alto si e no un metro, che cantava con una vocetta agra, in falsetto, accompagnandosi con una chitarra più grande di lui”.

La sua “lirica”, che sgorgava dal suo genio, commentò argutamente i fatti cittadini per tutto un cinquantennio di storia bergamasca, elevandosi dall’ebbrezza lieve dei vinelli delle colline o tra i purissimi aspri vapori del più autentico “trani”.

Rivendita di vini pugliesi in piazzetta S. Pancrazio (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

Tutta Bergamo lo conosceva ma nessuno, proprio nessuno, sapeva il suo vero nome. “Merica” – spiegò una volta il “cantore” – per via di una bisavola che si chiamava Maria Degna Merita e che aveva gli tramandato il nome, storpiato “in forza di chissà quali occulte leggi di antonomasia matronimica”, scrisse Vajana.

Si sapeva che era nato in SanTomaso, in anni lontanissimi, e ch’era figlio di un poverissimo cocchiere.

Via S. Tomaso nel 1910, con la donna che ha appena attinto l’acqua dalla fontanella (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

La sua bruttezza, “quasi disdicevole”, lo anticipò sin da bambino. Tutto di lui promuoveva al riso: magro impiccato, era alto come un paracarro, aveva le gambe sproporzionatamente corte e storte, malgrado le impaludasse civettuolmente in un giacchettone sproporzionatamente lungo. La sua camminata insicura ed ondeggiante tradiva un difetto alle ginocchia, che scontrandosi si respingevano a vicenda. “Gambestorte” e “crapadrecia”, si era compiaciuto definirsi.

“Ol Merica” nel commiato di Vajana

Il busto striminzito reggeva un cranio dalla forma marcata e pressata alle tempie; un visetto da infante, dominato da uno strano naso sottile da cui si allungava una barbetta appuntita e scomposta. Due occhietti vivacissimi e pungenti, quasi da topo, rallegravano quella specie di viso mobilissimo.

Le cronache si accaniscono descrivendo una bocca, “dalle labbra turgide e di un rosso rancido”, somigliante a “una ferita da taglio inferto da uno spadone medioevale”. Povero Merica. Parlava biascicando e il suo balbettio gli lasciava delle vistose bolle bianche ai lati della bocca, che risucchiava con movimenti suoi particolari. Nonostante ciò, anche quando serrava i denti digrignando fino all’esasperazione, riusciva simpatico a tutti.

Tra una canzone e l’altra aveva trovato il tempo di portare all’altare…. – c’è chi dice quattro, c’è chi dice cinque e c’è chi dice sette – donne, e di vederle poi dipartirsi nel regno dell’eternità: curiosamente, aveva sempre pronunciato il suo ‘sì’ mentre l’altra parte era in fin di vita. Sicchè ogni rito nuziale si era trasformato in un rito funebre, al termine del quale, “ol Merica” offriva da bere agli amici.

Il passeggio in Fiera nel 1902

Le di lui descrizioni sono a dozzine, ma fra tutte, quella di Geo Renato Crippa – che ai tipi bergamaschi dedicò esilaranti e commoventi capitoli – è senz’altro la più ricca e gustosa: nessuno meglio di lui – grande conoscitore delle storie e delle “macchiette” della città – avrebbe potuto né ignorare né lasciarsi sfuggire l’occasione ghiotta di descrivere il Merica.

La madre, una brava donna, illudendosi di farne un bravo artigiano l’aveva affidato a un ciabattino di Borgo Santa Caterina non badando che nello stanzino del “padrone”, fra banchetto, forme, ferri, pece, corde e scarpe, facevan bella vista alla parete due chitarre (una abbastanza passabile, l’altra vecchia e tarlata ma di buon suono) che avevano attirato le amorose attenzioni del giovinetto.

Il ponte di Borgo Santa Caterina

Non appena il “principale” sortiva dal bugigattolo, il nostro cercava di addestrarsi alla bell’e meglio e appassionatamente, e quando udiva qualche suono azzeccato si agitava all’impazzata meravigliandosi, fino a quando, dagli e ridagli e straziando le povere corde all’infinito, finì col realizzare un sogno cullato per settimane e mesi: accordare chitarra e canto fino ad acquistare una certa abilità, che perfezionò con qualche strana maestria.

Scrisse Crippa che “Per non disturbare i suoi di casa – vivevano in una stanza sola in quattro – esercitarsi nel ‘cesso’, all’esterno di una loggetta, fu invenzione prelibata. Questo posto, diceva, era il suo conservatorio, la scuola primaria della sua ‘genialità’ musicale”. Vi canticchiava la notte, cercando di adattare motivi popolari a testi di sua invenzione “amorosi o romantici, scelti in racconti di quartiere o raccolti nella miseria dei rimbrotti, delle accuse, delle stravaganze e delle irriquiete denuncie d’un volto rattrappito”.

Sicchè, “spingerlo a farsi conoscere, dopo averne constatata la bravura, fu operazione infame di un gruppo di buontemponi, decisi a scortarlo nelle osterie, sullo sterrato di piazza Baroni al tempo della Fiera, davanti ai caffè dei signori e sul Sentierone”.

Città Alta domina sul Sentierone con la Fiera e l’Ospedale di S. Marco e la chiesa di S. Bartolomeo (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Gli rimediarono così una giacca degna del suo nuovo ruolo, “magari di velluto ed un cappello verde alpino con fior di penna”.

Il lato della Fiera sull’attuale Largo Belotti (da “Bergamo nelle vecchie fotografie – D. Lucchetti)

Scortato dalla feroce compagnia, fece la sua prima apparizione pubblica nel suo borgo in due locali “di pregio”: il “Gamberone” e l’Angelo”.

Entrato nelle sale, così conciato, gli urlarono di andarsene alla svelta.

Borgo S. Caterina. Nei pressi si trovavano, poco distanziate fra loro, le trattorie delle Tre Corone, dell’Angelo, del Gambero e della Scopa (in “Bergamo nelle vecchie fotografie” di D. Lucchetti)

Ma imperterrito, con i suoi imbonitori pronti a difenderlo – “gente conosciuta (un macellaio e due salumieri)” – cominciò timidamente a cantare accompagnandosi alla chitarra scalcinata e “dati due strattoni, iniziò la sua tiritera con energia infuocata. Risa reiterate, battimani, ‘forza’, salutarono la esibizione, mentre, stordito ed in lacrime, l’artista non sapeva se accettare i bicchieri di vino che gli venivano porti da diverse parti: un successo”.

1910 circa: scoricio di Borgo S. Caterina (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Da quella sera la fama del “cantastorie” percorse l’intera città, dai borghi a Piazza Vecchia e poi ancora giù, in Viale Roma: nei trani, nelle osterie, nei caffè di periferia, lo attendevano, passandosi parola.

Il gioco delle bocce in una trattoria di Bergamo, 1890 (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

E così il suo repertorio mutò con destrezza e dalle fiabe d’amore passò ad improvvisare i fatti cittadini, commentandoli come un Pasquino redivivo.

“Verdi” – scrisse Umberto Ronchi – lo avrebbe assunto come Rigoletto, un Rigoletto generoso, tutto lepidezza e fantasia improvvisatrice”.

L’ometto, agli applausi non ci teneva affatto; voleva soldoni lui, quelli di rame: solidi, pesanti, colla bella faccia di Vittorio Emanuele.

Ol Merica in una caricatura del “Giupì” (da L. Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea, 1963)

Il castigamatti, “conquistava i suoi “affezionati” accusando prefetto, sindaco, amministratori, vigili, agenti del dazio, di non mantenere le promesse, di aumentare i prezzi delle derrate, di non pulire a dovere le strade, di impicciarsi in cose non di loro pertinenza, di permettere abusi nella applicazione delle tasse, nel non affannarsi a chiedere al governo di Roma il raddoppio della linea ferroviaria per Treviglio, di aumentare i tabacchi, il sale, i francobolli, i ‘trams’ e le cambiali.

Le giostre in tempo di Fiera (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

Bastava la pubblicazione di un manifesto con nuove ordinanze civiche o militari perchè il Merica, cantante analfabeta, chiesti ragguagli a conoscenti, schiattasse in imprecazioni e querele; uno spasso”.

1925 circa: il Sentierone (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Quando la guerra chiamò il popolo a raccolta, imbracciò la sua chitarra come un mitra e con la sua vocetta agra intonò il suo canto di battaglia:

“Viva l’Italia

la gran nassiù

che la combàt

per la resù”.

Il rifugio antiaereo scavato in Piazza Dante

 

Porta Nuova nel 1940. Sulla fronte dei tempietti si legge: “Il passato è già dietro le nostre spalle. L’avvenire è nostro” e “Disciplina Concordia e Lavoro per la ricostruzione della Patria”

Tra gli avvenimenti accompagnati dal suo lieto e canoro commento, famosa è la nascita del nuovo centro cittadino e di tutti gli edifici che spuntavano come funghi a ridosso delle Mura.

La Fiera in demolizione (1922-’24) e la nascita del centro piacentiniano

 

La Fiera in demolizione (1922-’24)

Del rinnovamento sontuoso della sua Bergamo egli ne fu entusiasta, ma la sua gioia fu mortificata dalla tristezza che attribuì alle sue vecchie amiche Mura:

“Che’ diràl chèl curnisù

Quando l’vé la primaera?

Vederàl piö i farfale

a vulà sota la féra?”

Panorama di Bergamo, 1938

Per far posto all’allora palazzo della Banca Bergamasca, sorta in prossimità del chiostro di Santa Marta, venne schiantato un ippocastano che per quasi un secolo aveva assistito a tutte le vicende bergamasche. Si trattava del “piantù” nel Boschetto di Santa Marta, uno stupendo gigante alla cui ombra ristoratrice si erano ritemprati vecchi pensionati e ai cui romantici effluvi si erano confortati dalle sartine ai soldatini.

1920 circa: il centro direzionale della ‘Nuova Fiera’ (Da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Quando lo vide crollare con schianto formidabile, compose un brano memorabile:

“Nel bosch de Santa Marta

a gh’era ü vècc piantù

per mèt sö öna strassa d’banca

I l’à mandat a reboldù”

La “strassa d’ banca” era la Banca Bergamasca, fallita e poi occupata dal Banco Ambrosiano, sorta in luogo del complesso monastico di S. Marta.

Il Sentierone e i suoi rigogliosi giardini negli anni ’30

Le due statue poste ai lati dell’appena inaugurato Palazzo di Giustizia, Il “Diritto” e la “Legge”, furono invece così nominate:

“Gh’è dò bèle statue

sura ü pedestalì

la siura l’è padruna

chèl biòt l’è l’inquilì”

Il Palazzo di Giustizia in Piazza Dante, da poco edificato

Che le sue argomentazioni fossero in prosa o in rima nessuno se ne accorgeva: per le folle egli era la bocca della verità, il fustigatore, il difensore della poveraglia, l’inquisitore”,

“Bravo, bravo”, gli urlavano, soprattutto se avvinazzate.

La sua acredine degenerava in lamentela disperata verso gli amministratori dei luoghi pii – ospedali, manicomio,“Clementina” – verso i quali gridava come un ossesso a difesa di sordomuti e poveri ciechi, del brefotrofio e relativa “ruota” e di ragazze-madri. Non c’era modo di trattenerlo.

Il fronte della fabbrica cinquecentesca (demolita nel 1937) dell’Ospedale vecchio di S. Marco: oggi, del grande complesso un tempo parte del quadrilatero della vecchia Fiera, è rimasta solo la chiesa che porta lo stesso nome

 

Il Manicomio Provinciale entrò in servizio dopo che fu chiuso, nel 1892, il manicomio di Astino. La ripresa fotografica è anteriore al 1905 (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

 

Marzo 1915: il trasloco della Pia Casa di Ricovero delle “Grazie” (ex convento degli Zoccolanti ed ora Credito Bergamasco) al nuovo edificio della Clementina. Nelle “Grazie” subentrò l’ospedale militare della CRI (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

 

Il Piazzale Porta Nuova con l’ex convento degli “Zoccolanti”: Casa di ricovero “di Grassie” sino al 1915, poi ospedale militare della CRI. Annullo postale del 14 – 7 – 1919 (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Lo ammansivano assicurando che si sbagliava e con gran fatica lo invitavano a consolarsi: ringraziava e una volta placato soggiungeva, quasi ilare: ‘Vi canterò la storia della Girometta, quella che, per amore, di chiappe ne vendette una fetta’.

Un gorgoglìo, in fondo alla gola, lo quietava prima di sgusciarsela recriminando”.

La Fiera settecentesca e il Sentierone. serie, riservata al mercato francese, fu stampata in tricromia dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche nel 1905 ca. (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Con la fede e con i santi era però impossibile tendergli un agguato, e lo seppe, una sera, una certa Paola, famosa passeggiatrice, che tentandolo a sproposito ricevette in cambio una sberla ben assestata.

Sempre avvolto in un pastrano raccattato che gli arrivava alle ginocchia, continuò a cantare finché la voce non divenne fioca e scheggiata fino a ridursi in miseria: “dopo il giro col piattello in mano, notava i pochi centesimi raccolti, borbottava sostenendo che egli non meritava di esser schiavo o sottomesso ad alcuno, ma degno di rispetto nel suo intenso lavorìo di giudice delle malefatte altrui, che egli rivelava da cittadino cosciente ed ardito. Non scherzava lui e non mentiva, o buffoni”.

Persa quasi totalmente la vista, si aggirava per le vie della città accompagnato da una povera fanciulla, anch’essa mezza cieca, perpetrando tristemente “i racconti di giorni perduti, di sindaci morti da anni, del dazio sparito, di denari senza valore e di inutili bazzecole”.

Ebbe però un lampo di poesia alla morte di Antonio Locatelli, scomparso in un agguato in Africa mentre era in missione a Lekemti compiendo voli di ricognizione per far sì che le truppe italiane non cadessero nelle imboscate delle milizie dei Ras finanziati dagli inglesi.

1920 ca. Questa cartolina, con Antonio Locatelli ed il suo inseparabile S.V.A., non è una vera e propria cartolina commerciale, ma è interessante poichè sul retro porta il visto della “censura fotografica” militare. La più grossa impresa sportiva di Locatelli fu la “prima trasvolata delle Ande”. Compì l’impresa di andata e ritorno tra il 31 luglio ed il 5 agosto 1919, effettuando anche il primo servizio di posta aerea tra l’Argentina e il Cile” (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Atterrato in una radura, fu ucciso a tradimento con tutto il suo seguito e del suo corpo non si seppe più nulla “e per ciò, come degli antichi eroi, ben si può dire che il suo corpo, forse arso, trapassò nei leggendari empirei del simbolo”. Ebbe a dire Bortolo Belotti.

Era il 1936 e per Bergamo fu un terribile trauma; anche il Merica, ormai vecchio e misero, lo pianse con dolore sincero.

“Il cuore, consunto, gli dettò una geremiade, mezzo angosciosa, mezzo gloriosa. Forse fu la sola e garbata elegìa sfociata in devoto dolore; la balbettava piangendo, sicuramente affranto:

Me pianze, me pianze,
l’è mort, l’è mort, ol poèr Tunì.
I la brüsat i nigher,
selvaggi de nu dì.
L’era grand e bu, mei del pà bianc.
Bel, bel coma un angelì.
Me pianze, me pianze, ol me poer Tunì”

Morì con un rammarico, quello di non saper comporre musica (“Potevo diventare un Donizetti”…). La morte lo colse all’inizio del 1943 dopo una breve malattia e fu annunciata da un necrologio dell’”Eco”: una colonna e mezza che l’avvocato Alfonso Vajana volle dedicare al povero cantastorie di San Tomaso.

Il Merica l’aveva invitato a comunicare la sua dipartita ai suoi ignari cittadini, nel momento in cui avrebbe per sempre posato la sua chitarra stanca: “Io lo compresi e lo feci con tenerezza. Del resto se l’era meritata…..: aveva servito, a modo suo, parecchie generazioni di bergamaschi, prodigando molto canto, attimi di serenità ed un po’ di sorriso”.

Contenendo a stento la tristezza, nell’angusta prigione del suo corpo breve e storto.

 

RIFERIMENTI

Geo Renato Crippa, Il “Merica, in “Bergamo così (1900 – 1903?)”.

Alfonso Vajana, “Uomini di Bergamo”, Vol II. Edizioni Orobiche, Bergamo.